Foreword by Giampaolo
Guerini
english translation
by Luther Blissett
Definitivamente appurato che il tempo non esiste, appesi al suo mai trascorrere, crediamo di scorrere pagine illusi che tutto si combini, convinti d'amazzarlo. Definitivamente appurato che il tempo ci ammazza (non perché scorra, ma perché due caffè ogni mattina non bastano ad affrontare la vita) non si può vivere con la vita almeno quanto lei non possa vivere con noi. Ora è già poi. Dimenarsi nel trascorrere porta solo alle inevitabili cristallizzazioni dell'agire: non sentirsi mai altrove, dipanare miriadi di minuti senza raggiungere una sola ora, illudersi di credere che credere sia un'illusione ecc. Chiunque scoreggi l'immortalità del corpo non ha mai preso in culo il destino della propria anima smarrita nell'infinita rassegnazione al... Al tempo? La lasci smarrita e si preoccupi solo di liberare il proprio sifone. Cosa garantisce il tempo che anche lo spazio non possa garantire? L'insopportabilità della vita. La vita deve al tempo il fatto che lui finga d'esistere.
Che si può trovare se non ciò che già abbiamo?, che si può cercare se non ciò che sappiamo di trovare? Non possiamo che fare ciò che è fatto, ogni domanda contiene già la riposta. Ineluttabilmente, cerchiamo di preservare, senza chance, il linguaggio dal suo disfacimento, almeno quanto Amleto cerchi di fottersene del suo trono ("i morti son morti") e Riccardo III cerchi di barattare il suo regno per un cavallo. Il trono te lo tieni, e il cavallo non l'avrai! La cosa importante è la scrittura senza quello che c'è dentro, la sua impossibilità. Attraverso la scrittura passa tutto ciò che non si può leggere. "Solo mi piace quello che mi spiacque". Da ragazzi si diceva - idioti - "bisogna smettere di smettere"; ci si faceva forza della propria idiozia, e via... - tra futili pretesti - un'altra bottiglia! Bene mi scrive (sognatore di illetterarietà) Tiziano Ogliari: "ho smesso di scrivere. Sarà una lussazione della coscienza, uno svago dell'encefalo, una serie di pinne cresciutemi fra una vertebra e l'altra e poi ho smesso perché la scrittura non è più lei, non è più quella di Gilgamesh ma neanche quello di quest'ultima parola ecco questa, questa, questa, ecc. non è mai lei, non è mai - ecco, per via di deduzione si è detta da sé che non c'è". La scrittura non è mai stata lei, solo forse i greci riuscivano a puntellarla a tal punto da lasciar che gli dei sognassero la mortalità. Eppure siamo ancora qua, qualche sogno gozzadiano ("Ed io non voglio più essere io! Non più l'esteta gelido, il sofista, ma vivere nel tuo borgo natio, ma vivere alla piccola conquista mercanteggiando placido, in oblio come tuo padre, come il farmacista..."), qualche altra amenità ("che scrivo a fare, se non riesco a scrivere almeno come Nabokov?"), qualch'altro atto d'arresa ("perché affannarsi attorno alla scrittura, è già fatta"). Che cazzo si preserva con la debolezza?, che si ottiene col coraggio? Troppo dissipatamente abbiamo provato a scrivere; potremmo smettere se non sapessimo che smettendo troveremmo esattamente la stessa cosa, se non peggio. Mi disse Andy Wharol, attorno al 1974 nella stanza deco al 57 East 66th Street: "se avessi avuto più coraggio, sarei rimasto in casa a fare le pulizie". Così almeno, la casa è pulita!
Le cose sono le idee, diceva lesse est percipi, rovesciando insieme le idee nelle cose, interrogandosi cioè su che cosa debba assicurarsi allidea perché di essa possa dirsi che è veramente cosa. Ciò che nellesistenza è durevole non è lazione ma ciò che ogni volta non è pensato. Ma anche con il come non è pensato. Impossibile alitare su i due momenti, impossibile separarli rigorosamente. Accettiamo la fatale ridondanza dellascesi: nessun pensiero potrà essere un modo di pensare una qualsiasi cosa. Il doppio svela subito il suo enigma: regolarmente il modo supera le cose delle cose che superano il modo. Il mondo è sempre più grande di qualsiasi opinione. La vera differenza non è tra interno ed esterno; lincrinatura non è oltre ma alla frontiera, insensibilmente incorporea, ignobile trucco per dire che ora è ancora. Questa frontiera fatta di meschini qui e là, regno di ciò che non accade, rivela le tracce ogni volta che non è necessario, scagiona l'atto dal farsi evento: erge tra altrove e in nessun luogo il loro non esserci che precede ogni possibile stato.
Enso (il cerchio in
giapponese, lassoluto nelliconografia zen, il cerchio tracciato
con un solo colpo di pennello dopo lunga meditazione), En soph (senza
fine in ebraico, il principio divino inconoscibile, lassoluta
perfezione nella quale non vi sono né distinzioni né differenziazioni).
Trasceso il simbolico, in The Entire Musical Work il soggetto, fondendosi
col suo/nonpiùsuo oggetto, lo misconosce. La differenza tra il
corpo che traccia e il cadavere che è in noi è di una estrema
labilità: questo frammento di cerchio è forse un sepolcro?
Lo spettatore di tutto questo è privato, fare questa The Entire
Musical Work nei luoghi abitualmente destinati a questo (gallerie, musei
ecc.), significa distruggere unintimità finalmente conquistata.
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