La copia è un ritorno, un atto rotondo, come l'idea di mondo nella cultura occidua; come la parola mondo che nella nostra lingua sembra salire, partendo da una vocale tonda sfuggita all'abbraccio di riserbo delle labbra, in un giro di giostra, un ciclo d'onda, per tornare a sé dopo aver scollinato due estroflesse consonanti, in circolo, accennando quanto di più chiuso, più rivolto a sé, più autofonico si possa pensare. Ma mondo è prima di tutto un'apertura.
Prima che un tutto accada - tenendo conto che un accadimento qualsiasi accade sempre come un tutto - si pensa al mondo come l'aprirsi a qualcosa dal nulla, come se il nulla si aprisse a qualcosa per chiudersi su di sé e sparirvi. Per questa apertura non esiste un prima: il nulla disparso per lasciare qualcosa ha nulla prima di sé. In tal senso il tempo è convenzionale: si stabilisce, e stabilizza, un prima e un dopo per identificare degli stati di fatto compresenti nell'insieme del tutto, ma in quella vacanza del tempo che è, a sua volta, il presente.
Mondo, però, è innanzitutto una chiusura. Posto per sé esso si delimita in quanto mondo per esclusione di un esterno, di qualcosa al di fuori che lo fa essere, in quanto in sé concluso, quel mondo. Innanzi a un tutto indefinito, il mondo è una chiusura che appropria qualcosa in quanto di quel mondo; esso può infinitizzarsi per autoinclusione, ma più si fa verso il novero di quel che gli appartiene, parimenti cresce l'indefinito di quel che gli è estraneo.
Dunque il mondo è prima di tutto un'apertura e innanzitutto una chiusura.
Lo spazio e il tempo non possono stare insieme, possono solo perdersi l'un l'altro.
Hai ragione tu quando scrivi che il tempo non esiste ma colloca le cose: il tempo non può essere esposto, star fuori all'esistenza, non può avere il fuori di sé di una dimensione, quindi, affermare una "dimensione temporale" (lo spazio dell'anima) è una contradictio in adjecto. La morte, per esempio, che dal tempo è collocata e del tempo è una dismisura, sino ad aprire tutte le fedi nell'eterno e nell'eternità della vista stessa, è una tolta di spazio, una sparizione; ogni segno di passaggio del tempo è un segno di sgretolamento, di perdita di spazio. Infine la scrittura, che, come una carpa o un onnivoro pesce di fondo, prolifera dove spazio e tempo, divergendo, aprono ad estuario il reale, non è un'insana, polimerica risoluzione dello spazio? Insana perché, a tutta apparenza e per consolidata tradizione fra i più - addirittura parenetica - pare sia anche una scabrosa perdita di tempo.
A spazio risolto il tempo può perdersi: quando tornerò a me, smessa questa penna, abbandonato questo foglio, riavrò spazio nel mio stesso; sarò una copia di me e avrò avuto ritorno dove mai non partii. Non avrò lasciato nulla e avrò ritrovato uno stesso; nel frattempo ti avrò scritto questa nota chiedendo conto alle parole di qualcosa su cui esse, nonostante il logos, non possono contare.
Non si ritorna a sé: da che l'uomo ebbe a che fare con il linguaggio non ha più fatto ritorno - vale sia per filogenesi che per ontogenesi. Un ritorno a quel che non sì è mai lasciato, portando a compimento quel che non si è mai dato: questo è copiare dal vero.

A copy is a return, a circular act, like the idea of the world in a twilight culture; like the word mundi which seems to rise, beginning with a vowel escaping the reserved embrace of the lips, in a circular motion, a cycle, returning to two due prominent consonants, closing the word, making it self-sufficient. But mundi is first and foremost an opening out.
Before a world takes place-in as much as everything that tales place is a world-it is as if nothingness opened itself up to something, only to return into itself and disappear. There is nothing before this opening up: a nothingness disappearing in order to leave something behind it has no before. In this sense time is a convention: it establishes and settles a before and after, to identify states which co-exist within the world, in the absence of time we call the present.
Mundi, however, is a closing off. It defines a world be excluding what is not in that world, it rends a world closed and self-ordained. A world may tend towards the infinite by including more and more, but the more it counts things in, the more indefinite becomes what it leaves out.
So a world is an opening out and a closing off.
Time and space cannot exist side by side, but only one inside the other.
You are right when you say time does not exist but deploys things: time cannot be displayed, be outside, it cannot have a separate dimension, even a "temporal dimension" (the space of the soul); it would be a contradiction in terms. Death, for example, which is deployed by time and is a non-measure of time, is disappearance, a removal of space to an eternal elsewhere, san eternal visible; all the signs left by time are signs of erosion, of things coming apart, a loss of defined spatial distinction. Writing is a an omnivorous fish-a carp-on the river bed, ready to proliferate where time and space part company, opening the real into an estuary, not an unhealthy polymeric, resolution of space? Unhealthy because tradition has it that-to admonish us-it is also a supreme waste of time.
If space is resolved, time is wasted: when I return to myself, after quitting this paper and pen, I'll re-appropriate space within myself; I will be a copy of myself and will return to a point from which I did not set out. I will have left nothing behind but will find a self; in the meantime I will have written this note, asking words to do-despite the logos-something they cannot do.
You do not return to yourself: ever since mankind has had a language, he has no longer returned to himself-either by phylogenesis or ontogenesis.
A return to somewhere you've never been, completing something never given: this is what copying really means.

Tiziano Ogliari (English translation by Hans Christian Ekman)